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INDIA, DOMINAZIONE
BRITANNICA IN
(British Raj, metà del XVIII secolo
- 1947). Dominio coloniale diretto e indiretto della Gran Bretagna
nel subcontinente indiano.
DOMINIO COMMERCIALE. Iniziata alla metà del Settecento,
con la graduale conquista del Bengala moghul, ma completata solo dopo
il 1840, con la sconfitta del forte stato sikh
nel Punjab, fu realizzata inizialmente da una società privata sotto
controllo parlamentare, la East India Company.
Questa impostò un meccanismo di egemonia coloniale a caratterizzazione
prettamente economico-finanziaria, consistente nell'usare delle risorse
fiscali dell'India per mantenere la Compagnia, le sue basi commerciali
in Asia e le sue conquiste territoriali, sfruttando al tempo stesso il
cospicuo surplus commerciale dell'India verso il resto del mondo per controbilanciare
il cronico e crescente disavanzo delle importazioni britanniche dall'Asia
orientale. Grazie al saldo attivo dell'India nel commercio interasiatico
(vedi country trade), attuato esportando in
Cina, nel sudest asiatico e altrove oppio
e cotonate, la East India Company poteva acquistare tè, porcellane
e seta da rivendere in Europa, tenuto conto del fatto che sino al pieno
dispiegarsi della rivoluzione industriale in Gran Bretagna (all'incirca
tra il 1820 e il 1830) nessuna merce europea era in grado di essere competitiva
in Asia. Dopo tale data, i filati e le cotonate di Manchester dilagarono
in India (ove non esisteva alcuna barriera doganale alle merci inglesi,
mentre la Gran Bretagna si proteggeva dalle cotonate indiane con altissime
barriere daziarie), distruggendovi in pochissimo tempo l'artigianato cotoniero.
Ciò costrinse l'India a spingere a fondo nella esportazione di
prodotti primari a basso valore aggiunto (juta, tè, cotone greggio),
ma soprattutto a estendere l'export di oppio da introdurre clandestinamente
in Cina. Il monopolio governativo dell'oppio rappresentò, per tutto
il XIX secolo, una delle colonne dell'economia indiana e la seconda fonte
fiscale per l'amministrazione dell'impero coloniale indiano dopo l'imposta
fondiaria.
LA COLLABORAZIONE DEI CETI ELEVATI. Cospicua, soprattutto nei primi
70-80 anni di dominio, fu la quota, a volte persino maggioritaria, di
capitali commerciali indiani provenienti da comunità specifiche
come i parsi o da gruppi castali a specializzazione mercantile come i
marwari, i banya ecc. nello sfruttamento coloniale del paese
a fianco dei britannici. In generale la stragrande maggioranza delle classi
superiori indiane fu favorevole alla presenza britannica e trasse grandi
vantaggi materiali dalla partecipazione alla gestione del paese. L'introduzione
di forme di proprietà della terra modellate sul diritto occidentale
dopo il 1793 consentì, in tutta la Bengal Presidency, di
accumulare patrimoni terrieri da gestire con contratti agrari in cui le
tradizionali posizioni contadine furono drasticamente ridimensionate:
lungi dal creare una classe di attivi imprenditori terrieri e di forti
proprietari interessati allo sviluppo del paese, la riforma creò
una catena di passivi rentiers, dal latifondista all'usuraio di
villaggio, che gravarono sulle spalle dei contadini rendendone le condizioni
sociali sempre più disperate. Anche il mutamento di atmosfera,
che, dopo il 1825, spinse il governo coloniale, sull'ala delle idee dei
radicali inglesi, ad "anglicizzare" la cultura e la prassi amministrativa
e giudiziaria in India, pur inducendo delle animosità e un iniziale
revival delle tradizioni induiste, non fece ancora nascere una vera opposizione
politica. Del resto, anche l'estesa rivolta dei militari indiani e di certe
frange popolari nel 1857-1858 (vedi mutiny),
che presentò certamente dei caratteri protonazionalistici, rimase
un movimento isolato e diviso al proprio interno e non lasciò alcuno
strascico di rilievo, né riscosse alcun appoggio tra le élite indiane
modernizzate. Lo stesso Congress (vedi Partito
del congresso), il maggior movimento politico indiano, fondato nel
1885, parlò a lungo con grande titubanza e ambiguità di
"autonomia" e accettò solo dopo la Prima guerra mondiale, e attraverso
un aspro dibattito interno, di puntare all'indipendenza.
L'IMPERO BRITANNICO E LA RINASCITA NAZIONALE INDIANA. Per tutto
il XIX secolo l'India rimase il perno economico essenziale dell'impero
coloniale britannico, oltre che la fornitrice della massa delle sue truppe
(provenienti da minoranze guerriere come i sikh, i rajput e i gurka).
La spaventosa serie di carestie che sconvolse l'India alla fine del secolo,
nel mentre risvegliò lo spirito critico di alcuni nazionalisti
radicali, rese avvertiti i più illuminati in Gran Bretagna che
l'India si avvicinava a essere ormai un "limone spremuto". Lo dimostrava
peraltro inequivocabilmente il costante declino della partecipazione dell'India
al commercio mondiale, passata dal 10 per cento intorno al 1800 al 2 per
cento un secolo dopo. La Prima guerra mondiale rappresentò un periodo
cruciale anche per l'India, non solo per l'enorme costo economico e umano
del conflitto, ma anche per la mancata concessione dell'autonomia politica
tante volte promessa dalla Gran Bretagna e non attuata per l'irrealistico
timore, da parte della classe dirigente inglese, che la rivoluzione d'ottobre
potesse estendersi al subcontinente. L'allarme per ogni accenno di protesta
popolare e per i primi frammentari scioperi degli embrionali sindacati
era, del resto, pienamente condiviso dalle stesse élite indiane, che in
gran parte approvarono il brutale massacro di
Amritsar nel 1919 da parte delle truppe coloniali. Nelle incertezze
del Partito del congresso di fronte alla nuova situazione il capolavoro
politico di M.K. Gandhi fu quello di dare
l'avvio a un vasto movimento popolare di proteste e di richieste di autonomia
e di porlo, attraverso la sua persona, sotto l'egida moderata del partito
stesso, garantendone la non violenza (vedi ahimsa)
e senza uscire dal solco della tradizione religiosa ortodossa (compreso
il sistema delle caste). Negli anni trenta, nonostante gli effetti depressivi
sull'agricoltura della grande crisi mondiale e la presenza di una qualche
attività semiclandestina di partiti marxisti, il Partito del congresso
(e analogamente la Muslim League) dominò
incontrastato il movimento nazionalista da posizioni moderate e interclassiste,
non scalfite, nella sostanza, dalle prese di posizione "socialisteggianti"
della sinistra del partito guidata da J.P. Nehru.
Tale equilibrio si spezzò con la Seconda guerra mondiale. Da un
lato l'apertura del fronte con i giapponesi in Birmania (ove si ebbe l'unico
esempio di attività militare antibritannica con i volontari indiani
di S.C. Bose al fianco dei nipponici), dall'altro l'onere del mantenimento
delle truppe alleate aggravarono le pesantissime condizioni delle campagne.
Il culmine della crisi si ebbe con la tragica carestia bengalese del 1943,
che mieté oltre tre milioni di vittime e su cui si innestò,
poco dopo, la spirale della violenza interreligiosa della spartizione
tra Pakistan e India. Il carisma di Gandhi, in declino da alcuni anni,
non riuscì a contenere l'ondata di violenza, mentre ormai un nuovo
gruppo dirigente, guidato da Nehru, si affermava alla testa del Partito
del congresso. Tra Gran Bretagna e India, una volta salvaguardati gli
interessi finanziari ed economici britannici nel paese, vi fu un semplice
passaggio di poteri alla data dell'indipendenza (15 agosto 1947).
C. Zanier
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